martedì, Giugno 3

“Di chi è la colpa”. Martina uccisa a 14 anni, le parole di denuncia di Paolo Crepet

Crepet rigetta completamente la narrazione secondo cui un giovane possa essere “normale” fino al sabato e diventare un omicida il lunedì: “Chi lo racconta, lo faccia nelle favole peggiori”, ha detto, con tono severo. Dietro a questa riflessione c’è un richiamo all’onestà intellettuale: minimizzare o semplificare la violenza è una forma di complicità sociale.

Una responsabilità collettiva

Ma la critica dello psichiatra non si limita al singolo gesto criminale. Il suo intervento si concentra soprattutto sul contesto sociale, culturale ed educativo che rende possibile queste tragedie. Crepet è netto: “Quello che sta accadendo è il frutto di ciò che abbiamo costruito”. Ogni atto di violenza, ogni femminicidio, affonda le radici in un terreno coltivato con anni di disattenzione, permissività e indifferenza.

Uno degli aspetti più preoccupanti, secondo Crepet, riguarda l’utilizzo precoce e incontrollato dei social network da parte dei più giovani. Ormai è normale che bambini di appena undici anni abbiano accesso a piattaforme digitali, spesso senza alcuna supervisione adulta. “Non prendiamoci in giro”, ammonisce lo psichiatra, “almeno davanti a una ragazzina uccisa, dovremmo avere il pudore di non raccontarci bugie”.

L’illusione della normalità e l’abbandono educativo

Crepet mette in discussione anche l’atteggiamento permissivo di molti genitori e adulti, che scelgono di ignorare segnali d’allarme in nome di una falsa libertà. “Questa sera – dice con amara ironia – decine di migliaia di ragazzine di 13 anni usciranno di casa a mezzanotte, non alle nove. E non ho mai visto un padre che si metta sulla porta a dire ‘no’”. Al contrario, spesso sono gli stessi genitori a incoraggiare certe abitudini, fornendo denaro e approvazione.

Queste parole colpiscono nel profondo perché mettono in discussione una mentalità diffusa, dove la figura genitoriale rinuncia al ruolo educativo in favore di una complicità comoda, ma dannosa. Secondo Crepet, mancano limiti, regole, autorità: elementi fondamentali per la crescita sana di un adolescente.

Una società che preferisce le fiaccolate all’azione

In un passaggio particolarmente tagliente, Crepet si scaglia contro l’ipocrisia collettiva, quella che si manifesta in gesti simbolici come le fiaccolate, ma che poi non produce cambiamento reale. “Basta, finiamola. Che facciamo, l’ennesima fiaccolata?”, si chiede con sarcasmo. Dietro questa domanda c’è una critica al bisogno di pacificazione e autoassoluzione che domina il discorso pubblico dopo ogni femminicidio.

Viviamo in una società che celebra la fragilità giovanile attraverso serie TV e campagne pubblicitarie, ma che si rifiuta sistematicamente di affrontare i problemi strutturali. Si preferisce guardare altrove, delegare, scaricare le colpe su altri – su “famiglie disfunzionali” o su contesti “diversi dal nostro”.

Il peso del silenzio e della complicità sociale

“La colpa è di chi sceglie di stare zitto”, afferma Crepet con tono deciso. È una frase che risuona come una condanna contro l’indifferenza quotidiana, il perbenismo che giudica da lontano ma non si mette mai in discussione. Molti preferiscono credere che certi episodi siano frutto di realtà lontane, estranee, senza riconoscere che il problema è nel nostro modo di vivere, educare, comunicare.

Lo psichiatra conclude la sua analisi con un richiamo storico significativo: “Non abbiamo ascoltato Pasolini 40 anni fa, quando parlava del Circeo, e adesso siamo ancora qui”. Il riferimento al massacro del Circeo non è casuale. È un invito a ricordare, a non archiviare il dolore, a non dimenticare le lezioni della storia. E soprattutto, a non restare in silenzio.

Un appello scomodo, ma necessario

Le parole di Paolo Crepet dividono, scuotono, fanno discutere. Ma soprattutto, ci costringono a guardare dentro noi stessi. Non sono semplici opinioni: sono un’accusa diretta, un richiamo al coraggio e alla responsabilità personale. Ognuno di noi, nel suo piccolo, contribuisce a modellare il mondo in cui viviamo. Continuare a ignorare questo fatto significa essere complici, anche senza volerlo.

Se vogliamo davvero cambiare le cose, dobbiamo iniziare a fare autocritica. Dobbiamo educare, vigilare, intervenire. E soprattutto, dobbiamo smettere di restare in silenzio

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