La questione del Donbass resta il nodo più esplosivo della trattativa tra Ucraina e Russia. Nonostante le pressioni internazionali e le richieste del Cremlino, la possibilità di una cessione territoriale è considerata impraticabile dal punto di vista legale, politico e sociale. Volodymyr Zelensky si trova davanti a un bivio che non riguarda soltanto la geopolitica, ma la sua stessa sopravvivenza politica e personale.
Perché la cessione del Donbass sarebbe alto tradimento
La legge ucraina pone limiti rigidissimi sulle concessioni territoriali. L’articolo 111 del Codice penale stabilisce che compromettere l’integrità del Paese espone chiunque – compreso il presidente – all’accusa di alto tradimento, con pene che vanno dai dodici ai quindici anni di carcere. Firmare un accordo che riconosca il Donbass alla Russia significherebbe dunque violare apertamente la legge e inaugurare un terremoto giudiziario senza precedenti.
È uno scenario che spiega perché ogni proposta volta a formalizzare la perdita di territori sia stata finora respinta, anche nei momenti più difficili del conflitto.
Un Parlamento diviso e un presidente politicamente indebolito
Zelensky si muove in un Parlamento senza una maggioranza stabile, dove il partito presidenziale, Servitore del Popolo, ha perso peso a causa degli scandali degli ultimi mesi. Modificare la Costituzione o il Codice penale richiederebbe numeri e consenso oggi impossibili da ottenere.
Il presidente è consapevole che l’esercito non ha le risorse per riconquistare rapidamente ogni area occupata, ma sa anche che una rinuncia formale provocherebbe un contraccolpo devastante. Per questo la trattativa con Mosca è imbrigliata in un labirinto legislativo e politico.
Il popolo ucraino non accetterebbe una resa
Se anche la legge non bastasse a bloccare l’ipotesi, c’è la posizione degli ucraini, chiarissima. Un sondaggio dell’istituto Info Sapiens mostra che il 51,4% dei cittadini è pronto a scendere in piazza in caso di compromesso considerato troppo penalizzante, mentre il 76,6% rifiuta totalmente l’idea di riconoscere legalmente la cessione del Donbass.

Un eventuale accordo rischierebbe quindi di trasformarsi in una miccia capace di incendiare il Paese.
Il ruolo dell’esercito e dei servizi: un equilibrio fragile
Non meno delicato è il possibile atteggiamento degli apparati militari e dei servizi di intelligence. La guerra nel Donbass è stata una delle battaglie più sanguinose del conflitto, e una resa in quell’area metterebbe in crisi la coesione interna delle forze armate. È uno scenario che Kiev vuole evitare a ogni costo, consapevole delle tensioni che potrebbero esplodere.
Il rimpianto del 1994: quando Kiev cedette l’arsenale nucleare
La discussione sul Donbass riporta alla memoria il memorandum di Budapest del 1994, quando l’Ucraina consegnò a Mosca 1.900 testate nucleari e 176 missili intercontinentali ereditati dall’URSS. In cambio ottenne garanzie sulla propria sicurezza e sui confini nazionali.
Garanzie poi violate con l’annessione della Crimea nel 2014 e con l’invasione del Paese. È un rimpianto che molti ucraini considerano il più grande errore strategico della giovane nazione, un monito che rafforza ulteriormente il rifiuto di concedere territori oggi occupati.
Perché la cessione del Donbass è politicamente e socialmente impossibile
Tra vincoli di legge, rischio di accuse penali, rivolta popolare, divisioni militari e memoria storica, la cessione del Donbass resta una linea rossa invalicabile. Lo sa Zelensky, lo sa il Parlamento, lo sa soprattutto un popolo che ha pagato in prima persona il prezzo della guerra. Qualsiasi ipotesi di compromesso che includa la rinuncia formale ai territori è percepita non come un accordo di pace, ma come una resa capace di aprire nuove ferite e nuovi pericoli.
Per questo, nonostante il conflitto prosegua da quattro anni, un accordo che preveda la cessione del Donbass è oggi considerato politicamente suicida e socialmente ingestibile.

















