lunedì, Agosto 11

Stefano Argentino morto in carcere, la madre accusa: “Mio figlio non doveva morire così”

«In carcere si va per scontare una pena, non per morire». Con queste parole, Daniela Santoro, madre di Stefano Argentino — il 35enne reo confesso dell’omicidio di Sara Campanella — rompe il silenzio e punta il dito contro la gestione della casa circondariale di Messina e, più in generale, contro lo Stato italiano. Argentino si è tolto la vita il 6 agosto scorso all’interno del penitenziario, e per il suo suicidio sono ora indagate sette persone, tra cui anche la direttrice della struttura.

Le parole della madre: «Lo Stato ha fallito»

In un’intervista rilasciata a TgCom, Santoro racconta di aver sempre temuto questo epilogo: «Stefano ha sempre manifestato il pensiero del suicidio, e io ho cercato di evitarlo fin quando ho potuto». Poi l’accusa: «Ancora una volta lo Stato italiano ha fallito».

I digiuni e il ricovero in infermeria

La madre ripercorre i mesi di detenzione del figlio, descrivendo un progressivo peggioramento delle sue condizioni fisiche e psicologiche. «Alla casa circondariale di Messina, Stefano ha fatto digiuni di cinque giorni, poi ha ripreso, poi di nuovo ha digiunato. È stato anche diciassette giorni senza bere completamente acqua» — racconta Santoro — «Alla fine è finito in infermeria per disidratazione».

Le accuse di violenza psicologica

Daniela Santoro parla anche di episodi che definisce “violenze psicologiche”: «In cella c’era la televisione che trasmetteva servizi sul caso di Stefano, raccontando cosa aveva fatto. Sentire quelle parole davanti agli altri è stato devastante per lui».

La mancata perizia psichiatrica

Un altro punto su cui la madre insiste è la decisione del giudice di non disporre una valutazione psichiatrica: «Sono rimasta scioccata dal gip per non aver dato la possibilità a Stefano di una perizia psichiatrica. Non sarebbe costata nulla, e un medico avrebbe potuto stabilire se fosse necessaria o meno».

Le indagini in corso

La Procura sta indagando per accertare eventuali responsabilità nella gestione del detenuto, con l’ipotesi che una maggiore attenzione e misure preventive avrebbero potuto evitare il suicidio. I sette indagati, tra cui la direttrice del carcere, devono rispondere a vario titolo di possibili omissioni.

Un caso che riapre il dibattito sulle carceri

La vicenda riaccende il dibattito sulle condizioni di vita nelle strutture penitenziarie italiane e sulla gestione di detenuti con fragilità psichiche. Organizzazioni per i diritti umani sottolineano come episodi simili non siano isolati, e chiedono riforme strutturali per garantire cure adeguate e prevenire altri suicidi in carcere.

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