lunedì, Novembre 3

“Perché rischia di saltare”: Referendum, la notizia scuote il Pd

Perché il referendum rischia di scuotere il PD: le incognite politiche e strategiche di Elly Schlein

Che ogni referendum costituzionale rappresenti un rischio per il governo in carica — di qualunque colore esso sia — è un dato ormai assodato. Ogni consultazione popolare di questo tipo non si limita a chiedere ai cittadini un parere tecnico su un singolo quesito, ma diventa inevitabilmente un giudizio politico complessivo sull’esecutivo e sulla sua maggioranza. Anche quando il tema è apparentemente tecnico, il voto assume i contorni di un “referendum sul governo”, con possibili ripercussioni sull’intero scenario politico nazionale.

Il voto del 2026: un test più per il PD che per il Governo Meloni

Molti analisti iniziano a sottolinearlo con chiarezza: nella primavera del 2026, il referendum confermativo potrebbe rappresentare un pericolo non tanto per Giorgia Meloni, quanto per Elly Schlein e il Partito Democratico. La leader dem si troverà di fronte a un bivio politico complesso: schierarsi in una campagna che rischia di apparire stanca, ideologica e scollegata dalla realtà, oppure cercare di imprimere una svolta strategica, rompendo con la tradizione retorica di una sinistra spesso percepita come difensiva e conservatrice.

Le domande che circolano nel dibattito interno al PD sono molteplici e cruciali:

Ha ancora senso puntare sulla narrativa della “democrazia in pericolo”?

Davvero gli elettori credono che il Paese si trovi sull’orlo di un “nuovo fascismo”?

È opportuno difendere a oltranza la corporazione dei magistrati proprio nel momento in cui cresce la percezione di una giustizia politicizzata?

Il rischio di un copione già visto

Se la risposta a queste domande fosse ancora una volta quella consueta — cioè una chiusura nel massimalismo ideologico — allora il destino politico del centrosinistra apparirebbe segnato. Il copione, infatti, sembra già scritto: un fronte progressista frammentato, dove figure come Bonelli, Fratoianni o Conte alzano la voce con toni da comizio, mentre Elly Schlein si limita a seguirli, ripetendo slogan ormai logori.

Lo schema ricorda quello delle ultime mobilitazioni su temi sociali e sindacali, dove Landini e Albanese hanno dettato la linea e il PD si è accodato senza una propria visione autonoma. Il risultato? I sondaggi parlano chiaro: il centrosinistra fatica a superare il 40% complessivo, mentre la coalizione di centrodestra continua a mantenere una maggioranza stabile e compatta.

Se la sinistra vuole cambiare rotta, il momento è adesso

Eppure, non tutto è perduto. Se nel PD c’è ancora qualcuno che crede in una strategia riformista e pragmatica, questo è il momento di farsi avanti. La corrente dei cosiddetti riformisti dem — spesso evocata ma raramente incisiva — ha ora la possibilità di prendere una posizione netta.

Finora, su molte questioni cruciali (dalla politica estera alla giustizia), questa componente si è mostrata timida, indecisa, quasi intimidita. Non ha saputo far sentire la propria voce né opporsi con forza alle derive populiste interne al partito. La domanda che circola tra molti osservatori è semplice: stavolta i riformisti reagiranno o continueranno a tacere?

Un bivio decisivo per i riformisti del PD

Davanti a loro si apre un bivio netto. Da una parte, possono continuare con la strategia della dissidenza controllata: qualche intervista in tono sommesso, un appoggio tiepido alla riforma, la richiesta della “libertà di coscienza”, come se questa dovesse essere concessa dall’alto. In altre parole, la solita resa politica alla segreteria Schlein.

Ma quale sarebbe la ricompensa per questa subordinazione? Probabilmente solo una manciata di seggi garantiti alle prossime elezioni del 2027, giusto il necessario per salvare la faccia ma non per incidere davvero. Sarebbe una strategia di mera sopravvivenza, non di rilancio

La strada alternativa: tornare a fare politica

C’è però una seconda strada, più rischiosa ma anche più ambiziosa: i riformisti potrebbero decidere di tornare a fare politica attiva, costruendo una posizione chiara e autonoma. Potrebbero ripartire, per esempio, dalla mozione di Maurizio Martina del 2019, che sosteneva apertamente la separazione delle carriere dei magistrati — un tema oggi tornato centrale con la riforma voluta dal governo.

Organizzare un comitato per il Sì, differenziarsi dalla linea ufficiale della segreteria e aprire un confronto trasparente con la base e con l’opinione pubblica significherebbe non solo ridare senso al pluralismo interno del partito, ma anche recuperare credibilità presso quell’elettorato moderato e riformista che negli ultimi anni si è allontanato.

Un’occasione “win-win”

Per i riformisti, una scelta del genere rappresenterebbe una classica situazione “win-win”. Nel migliore dei casi, sarebbero protagonisti di una vittoria politica che cambierebbe gli equilibri interni al partito; nel peggiore, avrebbero comunque riconquistato una soggettività politica oggi del tutto smarrita. Passerebbero così da semplici “oggetti” della linea altrui a veri e propri soggetti politici autonomi, in grado di influenzare il dibattito pubblico e di rilanciare la sfida delle idee a sinistra.

Un partito alla ricerca di identità

Il problema del PD, del resto, non è solo strategico ma anche identitario. Il partito di Schlein appare oggi intrappolato tra due pulsioni opposte: da un lato, la spinta movimentista e radicale che guarda ai temi dei diritti civili come unico terreno d’azione; dall’altro, una tradizione riformista e di governo che fatica però a esprimersi con coerenza e forza.

Il rischio è che il PD finisca per non rappresentare più nessuno, rimanendo prigioniero di una retorica minoritaria e di un linguaggio che non parla più né ai ceti produttivi né ai lavoratori. Il referendum costituzionale del 2026, in questo senso, sarà una cartina di tornasole decisiva per capire quale anima del partito prevarrà.

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